Ultimo aggiornamento: Mercoledì, 21 Maggio, 2008 0:51
MILAN KUNDERA
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La Denigrata eredità di Cervantes
Tratto da: «L'arte del romanzo», Adelphi
Nel 1935, tre anni prima di morire, Ed- mund Husserl tenne, a Vienna e a Pra- ga, alcune famose conferenze sulla crisi dell'umanità europea. L'aggettivo "eu- ropeo" designava per lui quell'identità spirituale che si estende al di là dell'Eu- ropa geografica (all'America, per esem- pio) e che è nata con la filosofia greca classica. Questa, secondo lui, per la pri- ma volta nella Storia, intese il mondo (il mondo nel suo insieme) come una que- stione da risolvere. Lo interrogava non per soddisfare questo o quel bisogno pratico, ma perché l'umanità era "per- vasa dalla passione del conoscere". Così profonda sembrava a Husserl que- sta crisi, che egli si chiedeva se l'Europa fosse ancora in grado di sopravviverle. Le radici della crisi erano per lui situabili all'inizio dei Tempi moderni, in Galileo e in Descartes, nel carattere unilaterale delle scienze europee, che avevano ri- dotto il mondo a un semplice oggetto di esplorazione tecnica e matematica e ave- vano escluso dal loro orizzonte il mondo concreto della vita, die Lebenswelt, come egli diceva. Il progresso scientifico aveva spinto l'uo- mo nei tunnel delle discipline specializ- zate. Più aumentava il suo sapere, più egli perdeva di vista tanto l'insieme del mondo quanto se stesso, affondando co- sì in quello che Heidegger, discepolo di Husserl, chiamava, con una formula bel- la e quasi magica, "l'oblio dell'essere". Quello stesso uomo che Descartes aveva eretto un tempo a "signore e padrone della natura" diventa una semplice cosa per le forze (della tecnica, della politica, della Storia) che lo superano, lo travali- cano, lo possiedono. Il suo essere con- creto, il suo "mondo della vita" (die Le- benswelt) per queste forze non ha più nessun valore e nessun interesse : è eclis- sato, è già caduto nell'oblio.
Credo però che sarebbe ingenuo consi- derare la severità di questa visione dei Tempi moderni come una semplice con- danna. Direi piuttosto che i due grandi filosofi hanno svelato l'ambiguità di un'epoca che è insieme degradazione e progresso e che, come tutto ciò che è umano, contiene il germe della sua fine nella sua stessa nascita. Tale ambiguità non avvilisce ai miei occhi gli ultimi quat- tro secoli della storia europea, ai quali anzi mi sento tanto più legato in quanto non sono un filosofo, ma un romanziere. Io penso, infatti, che fondatore dei Tempi moderni non sia solo Descartes, ma anche Cervantes. Forse proprio di lui i due fenomenologi non hanno tenuto il dovuto conto nel giudicare i Tempi moderni. Intendo di- re: se è vero che la filosofia e le scienze hanno dimenticato l'essere dell'uomo, è tanto più evidente che con Cervantes ha preso forma una grande arte europea che altro non è se non l'esplorazione di questo essere dimenticato. In effetti, tutti i grandi temi esistenziali che Heidegger analizza in Essere e tempo, giudicandoli trascurati da tutta la filoso- fia europea anteriore, sono stati svelati, mostrati, illuminati da quattro secoli di romanzo (quattro secoli di reincarnazio- ne europea del romanzo). Nel modo che gli è proprio, secondo la logica che gli è propria, il romanzo ha scoperto, uno do- po l'altro, i diversi aspetti dell'esistenza: con i contemporanei di Cervantes, si chiede che cosa sia l'avventura; con Sam- uel Richardson, comincia ad esaminare "quello che accade dentro", svelare la vita segreta dei sentimenti: con Balzac. scopre come l'uomo sia radicato nella Storia: con Flaubert, esplora la terra fino ad allora incognita del quotidiano : con Tolstoj, studia l'intervento dell'irrazio- nale nelle decisioni e nei comportamenti umani. Il romanzo sonda il tempo:Ê l'i- nafferrabile attimo passato con Marcel Proust; l'inafferrabile attimo presente con James Joyce. Interroga, con Thomas Mann, il ruolo dei miti che, venuti dal fondo dei tempi, guidano a distanza i nostri passi. E così via. Con costanza e fedeltà, il romanzo ac- compagna l'uomo dall' inizio dei Tempi moderni. Esso, fin da allora, è pervaso dalla "passione del conoscere" (quella passione che Husserl considera come l'es- senza della spiritualità europea), che l'ha spinto a scrutare la vita concreta dell'u- omo e a proteggerla contro "l'oblio dell'es- sere"; che l'ha spinto a tenere il "mon- do della vita" sotto una luce perpe- tua. In questo senso, capisco e condivi- do l'ostinazione con cui Hermann Broch ripeteva: la sola ragion d'essere di un ro- manzo è scoprire quello che solo un ro- manzo può scoprire. I1 romanzo che non scopre una porzione di esistenza fino ad allora ignota è immorale. La conoscenza è la sola morale del romanzo. E io aggiungo: il romanzo è opera del- l'Europa; le sue scoperte, pur se realizza- te in lingue diverse, appartengono al- l'Europa intera. La storia del romanzo europeo è la successione delle scoperte (e non la somma di quel che è stato scritto). Solo in questo contesto sovranazionale può essere colto e capito appieno il valo- re di un'opera (ossia la portata della sua scoperta).
Mentre Dio andava lentamente abban- donando il posto da cui aveva diretto l'universo e il suo ordine di valori, sepa- rato il bene dal male e dato un senso ad ogni cosa, Don Chisciotte uscì di casa e non fu più in grado di riconoscere il mondo. Questo, in assenza del Giudice supremo, apparve all'improvviso in una temibile ambiguità; l'unica Verità divina si scompose in centinaia di verità relati- ve, che gli uomini si spartirono fra loro. Nacque così il mondo dei Tempi moder- ni, e con esso il romanzo, sua immagine e modello. Intendere, come fa Descartes, l'io pensan- te come il fondamento di tutto, essere dunque soli di fronte all'universo, è un atteggiamento che Hegel, a giusto titolo, giudicò eroico. Intendere, come fa Cervantes, il mondo come ambiguità, dover affrontare, inve- ce che una sola verità assoluta, una quantità di verità relative che si contrad- dicono (verità incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi), posse- dere dunque come sola certezza la sag- gezza dell'incertezza, richiede una forza al- trettanto grande. Che cosa vuol dire il grande romanzo di Cervantes? Sull'argomento si è scritto molto. C'è chi pretende di vedere in que- sto romanzo la critica razionalista del fu- moso idealismo di Don Chisciotte. Altri vi vedono l'esaltazione di questo stesso idealismo. Entrambe le interpretazioni sono sbagliate, perché vogliono trovare alla base del romanzo non un interroga- tivo, ma un assunto morale. L'uomo sogna un mondo in cui il bene e il male siano nettamente distinguibili, e questo perché, innato e indomabile, esi- ste in lui il desiderio di giudicare prima di aver capito. Su questo desiderio sono fondate le religioni e le ideologie.Ê Esse possono conciliarsi con il romanzo solo traducendo il suo linguaggio di relatività e di ambiguità nel loro discorso apoditti- co e dogmatico.Ê Religioni e ideologie esi- gono che qualcuno abbia ragione: o An- na Karenina è vittima di un despota ot- tuso, o Karenin è vittima di una donna immorale; o K., innocente, è schiacciato da un tribunale ingiusto, o dietro il tri- bunale si nasconde la giustizia divina e K. è colpevole. In questo "aut-aut" è racchiusa tutta l'in- capacità di sopportare la sostanziale rela- tività delle cose umane. L'incapacità di guardare in faccia l'assenza del Giudice supremo.Ê Ed è questa incapacità che ren- de la saggezza del romanzo (la saggezza dell'incertezza) difficile da accettare e da capire.

Don Chisciotte partì per un mondo che si spalancava davanti a lui. Poteva en- trarvi liberamente e tornare a casa quan- do voleva. I primi romanzi europei sono viaggi attraverso il mondo, un mondo che sembra illimitato. L'inizio di Jacques le Fataliste sorprende i due eroi già in cammino: non sappiamo ne da dove vengono, ne dove vanno. Si trovano in un tempo che non ha né principio né fine, in uno spazio che non conosce fron- tiere, al centro di un'Europa per la quale il futuro non potrà mai finire. Mezzo secolo dopo Diderot, in Balzac, il lontano orizzonte è scomparso come un paesaggio dietro a quegli edifici moderni che sono le istituzioni sociali: la polizia, la giustizia, il mondo della finanza e del crimine, l'esercito, lo Stato. Il tempo di Balzac non conosce più l'ozio beato di Cervantes o di Diderot. è ormai a bordo del treno che chiamano Storia. Salirvi è facile, il difficile è scenderne. Pure, que- sto treno non ha ancora nulla di spaven- toso, anzi ha delle attrattive: a tutti i pas- seggeri promette avventure, e con esse onori e trionfi. Più tardi ancora, per Emma Bovary l'o- rizzonte si restringe fino a diventare una sorta di muro. Le avventure stanno dal- l'altra parte e la nostalgia è insopportabi- le. Nella noia della quotidianità, sogni e fantasticherie acquistano importanza. L'infinito perduto del mondo esterno viene sostituito dall'infinito dell'anima. Fiorisce cosi la grande illusione dell'uni- cità insostituibile dell'individuo, una del- le più belle illusioni europee. Ma il sogno dell'infinito dell'anima per- de la sua magia nel momento in cui la Storia, o quel che ne è rimasto, forza sovrumana di una società onnipotente, s'impadronisce dell'uomo. Non gli pro- mette più onori e trionfi, ma al massimo un posto di agrimensore. K di fronte al tribunale. K di fronte al castello, che cosa può fare? Molto poco. Può almeno sognare, come faceva Emma Bovary? No, la trappola in cui si trova è troppo terribile e assorbe come un aspiratore tutti i suoi pensieri e tutti i suoi senti- menti: può pensare soltanto al suo pro- cesso, al suo posto di agrimensore. L'in- finito dell'anima, se mai esiste, è diventa- to un'appendice quasi inutile dell'uomo. Il cammino del romanzo si delinea come una storia parallela dei Tempi moderni. Se mi volto indietro per abbracciarlo con lo sguardo, mi sembra strananente bre- ve e chiuso. Non è Don Chisciotte stesso che, dopo un viaggio di tre secoli, torna al villaggio travestito da agrimen- sore? Lui che un tempo era partito per scegliersi le sue avventure, adesso, in questo villaggio sovrastato dal castello, non ha più scelta, l'avventura gli viene ordinata: un miserabile contenzioso con l'amministrazione a proposito di un er- rore nella sua pratica. Dopo tre secoli, che cosa è successo all'avventura, primo grande tema del romanzo? è diventata la parodia di se stessa? E questo che cosa vuol dire? Che il cammino del romanzo si chiude con un paradosso? Certo, lo si potrebbe pensare. E non uno solo: di paradossi ce ne sono parecchi. Il buon soldato Svejk è forse l'ultimo grande romanzo popolare. Non è strano che questo romanzo comico sia al tempo stesso un romanzo di guerra ambientato nell'esercito e sul fronte? Che cosa è suc- cesso alla guerra e ai suoi orrori, se sono diventati argomenti su cui scherzare? In Omero, in Tolstoj, la guerra possede- va un senso pienamente intelligibile : ci si batteva per la bella Elena o per la Russia. Svejk e i suoi compagni si avviano al fronte senza sapere perché e, cosa anco- ra più sconcertante, senza preoccuparse- ne affatto. Ma qual è allora il motore di una guerra, se non è né Elena né la patria? La sem- plice forza che vuole affermarsi come forza? Quella "volontà di volontà" di cui parlerà più tardi Heidegger? Ma non è stata dietro a tutte le guerre da sem- pre? Sì, certo. Questa volta, però, nel romanzo di Hasek, essa è priva di qualsi- voglia argomentazione razionale. Nessu- no, neppure quelli che la fabbricano, credono alle chiacchiere della propagan- da. La forza è nuda, nuda come nei ro- manzi di Kafka. Il tribunale, infatti, non trarrà alcun vantaggio dall'esecuzione di K., così come il castello non otterrà van- taggi dal tormentare l'agrimensore. Per- ché la Germania ieri, e oggi la Russia, vogliono dominare il mondo? Per essere più ricche? Più felici? No. L'aggressività della forza è totalmente disinteressata, immotivata, la forza vuole solo il proprio volere; è l'irrazionale puro. Kafka e Hasek ci mettono dunque di fronte a questo immenso paradosso : nel corso dei Tempi moderni, la ragione cartesiana ha corroso uno dopo l'altro tutti i valori ereditati dal Medioevo. Ma nel momento della vittoria totale della ragione sarà l'irrazionale puro (la forza che vuole solo il proprio volere) a impa- dronirsi della scena del mondo, perché non ci sarà più alcun sistema di valori comunemente accettato in grado di op- porsi ad esso. Questo paradosso, magistralmente mes- so in luce nei Sonnambuli di Hermann Broch, è uno di quelli che mi piacerebbe chiamare terminali. Ce ne sono altri. Per esempio: i Tempi moderni coltivavano il sogno di un'umanità che, divisa in vane civiltà separate, avrebbe trovato un gior- no l'unità e con essa la pace eterna. Oggi, la storia del pianeta è giunta a costituire un tutto indivisibile, ma ciò che realizza e assicura questa unità così a lungo sogna- ta è, ambulante e perpetua, la guerra. L'unità dell'umanità significa: non c'è possibilità di fuga, in nessun posto e per nessuno.
Le conferenze in cui Husserl parlò della crisi dell'Europa e prospettò la pos- sibilità della scomparsa dell'umanità eu- ropea furono il suo testamento filosofi- co. Le tenne in due capitali dell'Europa centrale. Questa coincidenza è profon- damente significativa: proprio in quella stessa Europa centrale, infatti, per la prima volta nel corso della sua storia moderna, l'Occidente poté assistere alla morte dell'Occidente, o, più precisamen- te, all'amputazione di una parte di sé, quando Varsavia, Budapest e Praga fu- rono inghiottite dall'impero russo. La causa di questa sventura fu la prima guerra mondiale, che, scatenata dall'im- pero degli Asburgo, provocò la fine di questo stesso impero e compromise per sempre l'equilibrio di un'Europa inde- bolita. Ebbe così fine l'ultima età tranquilla, l'età in cui l'uomo aveva da combattere solo i mostri della propria anima, l'età di Joyce e di Proust. Nei romanzi di Kafka, di Hasek, di Musil, di Broch, il mostro viene dal di fuori e si chiama Storia; non assomiglia più al treno degli avven- turieri; è impersonale, ingovernabile, in- calcolabile, inintelligibileÊ e nessuno può sfuggirgli. è il momento (all'indo- mani della guerra del '14-'18) in cui la pleiade dei grandi romanzieri centroeu- ropei intravide, toccò con mano, colse, i paradossi terminali dei Tempi moderni. Non bisogna però leggere i loro romanzi come una profezia sociale e politica, co- me un'anticipazione di Orwell! Quello che ci dice Orwell avrebbe potuto essere detto altrettanto bene (anzi, molto me- glio) in un saggio o in un pamphlet. Questi romanzieri scoprono, invece, "quello che solo un romanzo può scopri- re": mostrano come, nelle condizioni dei "paradossi terminali", tutte le cate- gorie esistenziali cambino improvvisa- mente di senso: che cos'è l'avventura se la libertà d'azione di un K. è totalmente illusoria? Che cos'è l'avvenire se gli intel- lettuali dell'Uomo senza qualità non hanno il benché minimo sospetto della guerra che, domani stesso, spazzerà via le loro vite? Che cos'è il delitto se lo Huguenau di Broch non solo non ha rimorsi, ma addirittura dimentica il delitto che ha commesso? E se l'unico grande romanzo comico di quest'epoca, quello di Hasek, ha come sfondo la guerra, che cos'è suc- ceso al comico? Dov'è la differenza fra privato e pubblico, se K. non viene mai lasciato solo, nemmeno nel suo letto d'a- more, dai due inviati del castello? E che cos'è allora la solitudine? Un fardello, un'angoscia, una maledizione, come han- no voluto farci credere, o invece il valore più prezioso, continuamente schiacciato dalla collettività onnipresente? I periodi della storia del romanzo sono assai lunghi (non hanno niente a che vedere con i febbrili cambiamenti delle mode) e sono caratterizzati dall'aspetto o dagli aspetti dell'essere che il romanzo pone in primo piano. Ad esempio, le possibilità insite nella scoperta flauber- tiana della quotidianità furono piena- mente sviluppate solo settant'anni più tardi, nella gigantesca opera di James Joyce. Il periodo inaugurato, cinquan- t'anni fa, dalla pleiade dei romanzieri centroeuropei (periodo dei paradossi ter- minali) mi sembra tutt'altro che concluso.
Si parla molto, e da molto tempo, della fine del romanzo: ne hanno parlato, in particolare, i futuristi, i surrealisti, quasi tutte le avanguardie. Essi vedevano il ro- manzo sparire sulla via del progresso, a vantaggio di un avvenire radicalmente nuovo, di un'arte che non avrebbe somi- gliato a niente di ciò che esisteva prima. Il romanzo sarebbe stato sepolto in nome della giustizia storica, così come la mise- ria, le classi dominanti, i vecchi modelli di automobili o i cappelli a cilindro. Ora, se Cervantes è fondatore dei Tem- pi moderni, la fine della sua eredità do- vrebbe significare qualcosa di più che una semplice sostituzione nella storia delle forme letterarie; annuncerebbe la fine dei Tempi moderni. Ecco perché mi pare frivolo il sorriso beato con il quale vengono pronunciati i necrologi del ro- manzo. Frivolo, perché ho già visto e vissuto la morte del romanzo, la sua morte violenta (ad opera di proibizioni, della censura, della pressione ideologi- ca), nel mondo dove ho passato gran parte della mia vita e che si suole chia- mare totalitario. Fu chiaro, allora, che il romanzo era perituro; così come era pe- rituro l'Occidente dei Tempi moderni. In quanto modello di quel mondo, fon- dato sulla relatività e l'ambiguità delle umane cose, il romanzo è incompatibile con l'universo totalitario. Questa incom- patibilità è più profonda di quella che separa un dissidente da un apparatcik, un combattente per i diritti dell'uomo da un torturatore, perché non è soltanto politica o morale, ma ontologica. Ossia: il Êmondo basato su una sola Verità e il Êmondo ambiguo e relativo del roman- zo sono fatti di due materie diversissi- me l'una dall'altra. La Verità totalitaria esclude la relatività, il dubbio, l'interro- gativo, ed è quindi inconciliabile con quello che chiamerei lo spirito del ro- manzo. Ma non è forse vero che nella Russia comunista si pubblicano centinaia e mi- gliaia di romanzi, con tirature altissime e con enorme successo? è vero, certo, ma questi romanzi non fanno progredire la conquista dell'essere. Non scoprono nes- suna nuova particella dell'esistenza; si li- mitano a confermare il già detto; anzi, proprio in questo confermare quello che si dice (quello che bisogna dire) sta la loro ragion d'essere, la loro gloria, l'utili- tà che hanno nella società a cui appar- tengono. Poiché non scoprono niente, non partecipano più a quella successione di scoperte che è per me la storia del ro- manzo; si situano al di fuori di questa storia, oppure : sono romanzi dopo la storia del romanzo. è all'incirca mezzo secolo che la storia del romanzo si è fermata, nell'impero del comunismo russo. Un avvenimento di portata enorme, se si pensa alla gran- dezza del romanzo russo da Gogol a Be- lyj. La morte del romanzo non è quindi un'idea fantasiosa. è già avvenuta. E noi adesso sappiamo come muore il roman- zo: non scompare, cade fuori dalla sua storia. La sua è una morte pacifica, inos- servata, e non scandalizza nessuno.
Ma se il romanzo sta arrivando alla fine del suo cammino, non è forse per sua logica interna? Non ha già sfruttato tutte le sue possibilità, tutte le sue conoscenze e tutte le sue forme? Ho sentito parago- nare la sua storia alle miniere di carbone da gran tempo esaurite. Ma non somi- glia piuttosto, questa storia, al cimitero delle occasioni perdute, dei richiami non ascoltati? Ci sono quattro richiami ai quali sono particolarmente sensibile. Il richiamo del gioco. Tristram Shandy, di Laurence Sterne, e Jacques le Fataliste, di Denis Diderot, mi appaiono oggi i due romanzi del Settecento, con- cepiti entrambi come un gioco grandio- so. Due vette della leggerezza che mai, ne prima ne dopo, sono state raggiun- te. In seguito, il romanzo si lasciò impa- stoiare dall'imperativo della verosimi- glianza, dal realismo dell'ambientazione. dal rigore della cronologia. Abbandonò le possibilità contenute in quei due capo- lavori, che sarebbero potute servire co- me base per un'evoluzione del romanzo diversa da quella che conosciamo (sì, perché si può immaginare anche un'al- tra storia del romanzo europeo..). Il richiamo del sogno. La sonnecchiante immaginazione dell'Ottocento fu im- provvisamente risvegliata da Franz Kaf- ka, il quale raggiunse ciò che i surrealisti teorizzarono dopo di lui senza mai vera- mente realizzarlo: la fusione tra sogno e realtà. è questa, in effetti, una vecchia ambizione estetica del romanzo, già pre- sentita da Novalis, ma che richiede l'arte di un'alchimia che soltanto Kafka arrivò a scoprire un centinaio di anni più tardi. Questa enorme scoperta, più che il ter- mine di un'evoluzione, è un'apertura inaspettata: sappiamo ora che il roman- zo è il luogo in cui l'immaginazione può esplodere come in un sogno e che esso può affrancarsi dall'imperativo appa- rentemente ineluttabile della verosimi- glianza. Il richiamo del pensiero. Musil e Broch fe- cero entrare sulla scena del romanzo un'intelligenza sovrana e luminosa. Non per trasformare il romanzo in filosofia, ma per mobilitare sulla base del raccon- to tutti i mezzi, razionali e irrazionali, narrativi e meditativi, in grado di get- tare luce sull'essere dell'uomo; di fare del romanzo la suprema sintesi intellet- tuale. La loro impresa porta dunque a compimento la storia del romanzo, o non è invece l'invito a un lungo viag- gio? Il richiamo del tempo. Il periodo dei para- dossi terminali incita il romanziere a non limitare più la questione del tempo al problema proustiano della memoria personale, ma ad estenderla all'enigma del tempo collettivo, del tempo dell'Eu- ropa, di quest'Europa che si volge indie- tro a guardare il suo passato, a fare un bilancio, ad abbracciare la sua storia, co- me un vecchio che abbracci con un solo sguardo tutta la sua vita trascorsa. Da qui la voglia di oltrepassare i limiti tem- porali di una vita individuale nei quali il romanzo è stato fino ad allora rinchiuso, e di far entrare nel suo spazio diverse epoche storiche (Aragon e Fuentes ci hanno già provato). Ma non voglio profetizzare le vie future del romanzo, delle quali non so nulla. Voglio dire solo questo: se il romanzo deve veramente scomparire, non è per- ché sia allo stremo delle forze, ma per- ché si trova in un mondo che non è più il suo.
L'unificazione della storia del pianeta, questo sogno umanista di cui Dio ha mali- gnamente permesso la realizzazione, si accompagna a un processo di riduzione vertiginosa. Vero è che le termiti della riduzione rodono da sempre la vita uma- na: anche il più grande amore finisce per essere ridotto a uno scheletro di poveri ricordi. Ma il carattere della società mo- derna rinforza mostruosamente questa maledizione: la vita dell'uomo è ridotta alla sua funzione sociale; la storia di un popolo a pochi avvenimenti, a loro volta ridotti a un'interpretazione tendenziosa; la vita sociale è ridotta alla lotta politica, e questa al fronteggiarsi di due sole grandi potenze planetarie. L'uomo è preso in un vero e proprio turbine di riduzione, nel quale il "mondo della vita" di cui parlava Husserl fatalmente si offusca e l'essere cade nell'oblio. Ora, se la ragion d'essere del romanzo è di tenere il "mondo della vita" sotto una luce perpetua e di proteggerci contro "l'oblio dell'essere", l'esistenza del ro- manzo non è oggi più necessaria che mai? Direi di sì. Ma, ahimè, anche il romanzo è roso dalle termiti della riduzione, le quali non riducono soltanto il senso del mondo ma anche il senso delle opere. Il romanzo (come tutta la cultura) si trova sempre di più nelle mani dei mass me- dia; e questi, essendo agenti dell'unifi- cazione della storia planetaria, amplifi- cano e canalizzano il processo di riduzio- ne; distribuiscono nel mondo intero le stesse semplificazioni e gli stessi luoghi accettati dall'umanità E poco importa che nei loro di- versi organi affiorino i diversi interessi politici. Dietro a questa differenza di su- perficie regna uno spirito comune. Basta sfogliare i settimanali politici americani o europei, di sinistra o di destra che sia- no, dal "Time" allo "Spiegel". Hanno tutti la stessa visione della vita, che si riflette nell'identica organizzazione del sommario, nelle stesse rubriche, nelle stesse forme giornalistiche, lo stesso vo- cabolario e lo stesso stile, gli stessi gusti artistici e la stessa gerarchia fra ciò che ritengono importante e ciò che ritengo- no insignificante. Questo spirito comune dei mass media che si dissimula dietro la loro diversità politica è lo spirito del no- stro tempo. E questo spirito mi sembra contrario allo spirito del romanzo. Lo spirito del romanzo è lo spirito di complessità. Ogni romanzo dice al letto- re : "Le cose sono più complicate di quanto tu pensi". è questa l'eterna veri- tà del romanzo, sempre meno udibile, però, nel frastuono delle risposte sem- plici e rapide che precedono la domanda e la escludono. Per lo spirito del nostro tempo, o ha ragione Anna o ha ragione Karenin, e la vecchia saggezza di Cer- vantes, che ci parla della difficoltà di sa- pere e dell'inafferrabile verità, sembra ingombrante e inutile. Lo spirito del romanzo è lo spirito di continuità: ogni opera è la risposta alle opere che l'hanno preceduta, ogni opera contiene tutta l'esperienza anteriore del romanzo. Ma lo spirito del nostro tempo è concentrato sull'attualità, che è così espansiva, così ampia, da escludere il passato dal nostro orizzonte e ridurre il tempo al solo attimo presente. Preso in questo sistema, il romanzo non è più ope- ra (cosa destinata a durare, a congiunge- re il passato all'avvenire), ma un avveni- mento di attualità come tanti altri, un gesto senza domani.
Ma allora, nel mondo "che non è più il suo", il romanzo è destinato a scompari- re? Lascerà sprofondare l'Europa nel- 1'"oblio dell'essere" ? E di esso non reste- rà nient'altro che il chiacchiericcio senza fine dei grafomani, nient'altro che ro- manzi dopo la storia del romanzo ? Non lo so. Credo solo di sapere che il romanzo non può più vivere in pace con lo spirito del nostro tempo: se vuole continuare a scoprire quello che ancora non è stato scoperto, se vuole " progredire " ancora in quanto romanzo, può farlo solo an- dando contro il progresso del mondo. L'avanguardia ha visto le cose altrimenti, era posseduta dall'ambizione di essere in armonia con l'avvenire. Gli artisti d'a- vanguardia hanno creato, è vero, opere coraggiose, difficili, provocatorie, impo- polari, ma le hanno create con la certez- za che "lo spirito del tempo" era con loro e che, domani, avrebbe dato loro ragione. In passato, anch'io ho creduto che l'av- venire fosse il solo giudice competente delle nostre opere e delle nostre azioni. Poi ho capito che il flirt con l'avvenire è il peggiore dei conformismi, la vile adula- zione del più forte. Perché l'avvenire è sempre più forte del presente. Sarà lui, nfatti, a giudicarci. E certo senza alcuna competenza. Ma se l'avvenire non rappresenta ai miei occhi un valore, a che cosa tengo, allora? A Dio? Alla patria? Al popolo? All'indi- viduo? La mia risposta è insieme ridicola e sin- cera: io non tengo a niente tranne che alla denigrata eredità di Cervantes.